Al via a Padova il progetto Siadom
Al via a Padova il progetto Siadom per l’inclusività in azienda. Manager bendati per lottare insieme contro gli stereotipi di genere, l’iniziativa di Fòrema con Marta Telatin
Padova protagonista dell’inclusione anche in azienda: il Social Innovation alliance for diversity management and innovation of organizational models, Siadom, è un progetto ambizioso che mira a cambiare stereotipi di genere e comportamenti radicati.
Con il finanziamento della Regione Veneto e all’interno della cornice legislativa della direttiva ridenominata “Pari”, Progetti e azioni di rete innovativi per la parità e l’equilibrio di genere, Fòrema, società di formazione del sistema confindustriale italiano, inaugurerà a Padova il prossimo 25 ottobre un percorso articolato, studiato per rompere il soffitto di cristallo contro il quale oggi si fermano le aspettative delle donne.
Per realizzarlo, sono stati coinvolti 44 partner tra organismi pubblici e privati, da citare tra gli altri la collaborazione delle Università di Padova e l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Bendati contro gli stereotipi di genere
Sarà Marta Telatin a inaugurare il progetto, padovana e formatrice, Marta, che ha perso la vista durante l’adolescenza per una malattia genetica, garantirà ai partecipanti una esperienza unica: i manager presenti verranno infatti tutti bendati per facilitare e riflettere sulle relazioni.
Un laboratorio ricco di attività capace di smuovere rigidità e di far riflettere, di cambiare punto di vista, attraverso l’uso di tutti i sensi tranne la vista, incuriositi abbiamo intervistato Marta Telatin
Qual è la principale differenza tra bendare i partecipanti e organizzare eventi come una cena al buio o visitare un museo al buio?
La sensazione della benda rispetto a una stanza completamente al buio è diversa. Al buio sperimenti una sensazione di “cecità”; il buio è davvero buio quindi l’occhio non si abitua, non c’è luce che filtra e non si vedono ombre. Il buio delle cene è un inchiostro. Le attività con la benda servono a eliminare la vista e provare a concentrarsi sugli altri sensi. Tutto quello che io propongo non è per entrare dal punto di vista di una persona cieca ma per cercare di cambiare il proprio punto di vista.
In che modo questo suo particolare laboratorio può contribuire a rendere più inclusiva un’azienda?
Parlare di inclusione è ancora molto utopistico, nel senso che l’inclusione esisterà nel momento in cui ogni persona farà parte di un gruppo senza sottolinearne la diversità. La diversità fa paura che sia legata alla disabilità, all’orientamento sessuale, alla provenienza, all’origine. Ad esempio, finché Marta Telatin è presentata come formatrice non vedente stiamo sottolineando che Marta Telatin non vede: parlare di inclusione è difficile.
Sappiamo che il senso della vista è un senso molto usato, e abusato, quindi, interrompendo il controllo legato alla vista ci permettiamo di concentrarci su altri sensi. Sui quattro rimasti, o su più sensi, io nei miei corsi parlo di ventidue sensi.
Ho perso la vista all’età di tredici anni e ho sempre concentrato i miei studi universitari sull’importanza dell’uso dei sensi, percepire la realtà attraverso tutti i sensi ci permette di avere una comprensione del tutto più profonda, di noi stessi, degli altri e dell’ambiente che ci circonda. L’eliminazione della vista è una metafora per cambiare punto di vista, andare oltre quello che vedo. Provo ad ascoltare e a percepire, sentire cosa mi sta dicendo la persona o il progetto che devo sviluppare.
Quali sono i limiti che spesso riscontra quando propone questi laboratori bendati?
Le reazioni dei partecipanti sono diverse, la persona razionale va in tilt perché eliminare la vista significa eliminare il controllo e gli altri sensi vanno in carne viva e devi imparare ad ascoltare con il resto del corpo, cosa che la maggior parte delle persone evita, evita per non stare male. Evita per diverse ragioni.
I limiti più grossi sono legati alla razionalità e al controllo. Spesso si fa fatica a rimanere bendati, si fa fatica a lasciarsi andare, si fa fatica a fidarsi degli altri, perché in primis non ci fidiamo di noi stessi.
E quali barriere riesce invece a superare scatenando lo stupore degli stessi partecipanti?
Lo stupore lo si scatena sin da subito, perché dal punto di vista culturale le persone vogliono andare oltre, scardinare il controllo, quindi, le proposte che io faccio stupiscono, destabilizzano. C’è chi riesce a lasciarsi andare e chi rimane nella sua rigidità, ma comunque alla fine del percorso le persone riescono ad uscire dalla cornice, ad uscire dal setting.
Io lancio un semino, un semino che poi sarà lo stesso individuo che dovrà alimentare con l’acqua; io do il la e li aiuto ad accordare lo strumento, ma poi sta a loro mantenere la melodia. Sicuramente guarderanno anche al termine inclusione in maniera più serena. Poi come venga mantenuti questa consapevolezza è soggettivo, però sicuramente smuove molto.
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