Ca’ Macana, il futuro dietro la maschera

Artigianalità e mondo digitale: le strategie di Ca’ Macana per coniugare due mondi e preservare una tradizione manifatturiera italiana. Ne abbiamo parlato con il titolare Davide Belloni
Un’icona artistica veneziana legata a un territorio che risente di un flusso sempre più distratto e congestionato, un modello di business che fa i conti con la necessità di emergere ma anche di preservare nel futuro un’eccellenza italiana: tutto questo è al centro dell’impegno di una realtà – quello dell’atelier veneziano di Ca’ Macana – ancora artigianale. Secondo i piani del titolare, Davide Belloni, per guardare al futuro e alle sue variabili occorre puntare sui servizi, sulla formazione e sulla conservazione di un patrimonio culturale unico e sempre più raro.
Partiamo dalla scelta e-commerce: una sfida per un prodotto così particolare che si confronta ovviamente con un mercato molto ampio.
«Probabilmente siamo stati i primi in assoluto nel settore, nel 1999, a lanciare un sito e-commerce. Serviva come vetrina, poiché avevamo intuito quanto fosse assolutamente importante per farsi trovare. Oggi, la scelta è banalmente più quella di agevolare la ricerca del prodotto da parte di chi viene già qui, fisicamente, a Venezia. È importante esserci per un discorso di visibilità e di vendita diretta. Noi non investiamo tanto in promozione, ma il web nel settore ha sicuramente dato una svolta, ha avuto un impatto negli ultimi anni, soprattutto dopo la
pandemia. C’è stata una crescita naturalmente che però poi si è mantenuta in questi anni. I numeri sono aumentati e possiamo parlare di un +20 per cento quasi. Quello che emerge ogni anno è una piccola crescita organica di questo settore, anche se è difficile dire dal fatturato quale sia dell’e-commerce in particolare il netto ritorno».
C’è soprattutto un altro circuito, in questo settore, che continua a funzionare invece.
«È la vendita all’ingrosso, quella fornitura da 150-200 pezzi, ma anche solo 30 che arrivano da richieste specifiche, dirette, basate sì dalla curiosità data dal sito, ma non solo. Se dall’e-commerce, infatti, il ritorno è forse di un 5 per cento, il resto è percentualmente dato ancora dall’attività di contatto diretto e passaparola. L’e-commerce da solo, infatti, non cuba così tanto, ma se non ci fosse sicuramente si diminuirebbe molto anche tutto il resto del giro d’affari».
Quali sono i punti di forza

del suo modello allora?
«La mia impresa punta su forniture all’ingrosso e vendita al dettaglio, sono prodotti che facciamo noi ma si aggiunge anche la vendita di servizi, perché facciamo varie attività di corsi, di workshop che possono essere fatti al singolo, alla famiglia, al gruppo di 150 persone della grande azienda, è un ventaglio di opportunità che si aggiungono e che vengono veicolate dal sito. È difficile scorporare il tutto, sono tutti interconnessi, è come in un ecosistema».
Tutto ruota attorno alla creazione di maschere, ma anche alla sopravvivenza di questa attività?
«Rimaniamo artigiani, perché più del 50 per cento del fatturato è sicuramente legato alla produzione e vendita, i corsi danno uno sviluppo maggiore perché c’è un mercato, una domanda più ampia.
C’è una percentuale di crescita variabile sul prodotto legato ai flussi turistici, a quelli che sono gli eventi che riusciamo a intercettare ma questo non è fattore costante, perché un anno le maschere ci vengono richieste dal settore della moda, l’anno dopo magari da altri ambiti, poi resta anche la produzione e la vendita nei negozi. Sicuramente questo può crescere o diminuire, soprattutto secondo i poteri d’acquisto che hanno questi ambiti ed è immediatamente dipendente dall’andamento dell’economia globale. Abbiamo una clientela che è da tutto il mondo, principalmente occidentale».
Si affacciano mercati nuovi rispetto al passato?
«Arrivano richieste particolari, cose che non sono state mai chieste da società in Arabia Saudita, ad esempio, o da agenzie di eventi che si occupano di organizzare festival che spesso nemmeno conosciamo. Ci sono forniture che credo nessuno sia in grado di fornire, a parte noi, sia per capacità produttiva, sia per stoccaggio, sia perché spesso vogliono qualcosa di realmente personalizzato».
Si sta forse affinando il genere di richieste che vi arrivano?
«A volte ci sono anche insegnanti o scuole di teatro che ci chiedono le maschere della Commedia dell’Arte, ma altre ancora sono richieste per un matrimonio, per un evento speciale, perché – non lo sappiamo, forse – ma nel mondo ci sono mille feste tutti i giorni in maschera, con diversi tipi di stile, di temi. E nel mondo poche persone producono effettivamente maschere, adatte al cinema o persone all’animatronica (ossia, per maschere apposte su robot, ndr) in realtà siamo probabilmente pochissimi al mondo che le fanno».
I prossimi progetti, le prossime frontiere che pensa di poter raggiungere in questo settore?
«Direi due progetti, prima di tutto chiudere uno dei due showroom che abbiamo dopo Carnevale 2025. Questo perché la vendita a dettaglio in certe zone di Venezia diventerà sempre più difficile: c’è troppa gente, non c’è nemmeno modo di fermarsi e apprezzare il prodotto. Secondo, aprire invece quello che è lo spazio che ci manca, uno spazio produttivo, un laboratorio più grande per delle collaborazioni o progetti con designer artisti, artigiani differenti da noi, anche mascherai, ma che magari vengono da altri settori, così da rinnovare un po’ l’offerta di stili e anche di tecniche che usiamo per la decorazione. Abbiamo tanto da mettere a disposizione, da insegnare.
Non tanti nel mondo sanno di quest’arte e avere più spazio significa poter fare anche cose più grandi, più pezzi unici e, contemporaneamente, formare delle nuove leve, nuove generazioni e mandare avanti un mestiere.
Manca un ricambio generazionale come si è verificato in tantissimi altri ambienti che richiedono tempo e manualità e che difficilmente vengono insegnati fuori dalle botteghe. Le scuole e le istituzioni non incentivano questo, se non con progetti una tantum o con un po’ soldi a pioggia che non credo producano molto. L’unica cosa da fare è investire e formare delle persone che producano realtà alternative, specializzate e che daranno continuità al settore, almeno per un’altra generazione».