Carrera: tradizione italiana, visione globale

Viaggio insieme a Gianluca Tacchella, amministratore delegato di Carrera Jeans, nel ruolo socioculturale del denim più venduto in Italia, ma che oggi racconta anche di inclusione, sostenibilità e blockchain
Siamo a pochi mesi dal suo sessantesimo compleanno, ma l’azienda Carrera Jeans – tra le più longeve nel settore della moda italiana – mantiene intatto il suo spirito giovane, come i suoi capi più celebri. Nata nel veronese e poi, in parte, spostatasi in Asia per scelte generazionali della famiglia fondatrice, ha realizzato oggi una produzione verticale (dalla coltivazione della materia prima alla vendita) ripercorrendo intanto costumi e cambiamenti sociali di più epoche, ciascuna interpretata da un prodotto unico fino ai giorni nostri, tra valori concreti e nuove visioni.
Incontriamo Gianluca Tacchella, amministratore delegato di Carrera Jeans, il marchio denim più venduto in Italia pur se prodotto altrove da oltre trent’anni. Intatto e innegabile resta comunque il ruolo del jeans, trasversale e oltre ogni confine: un simbolo culturale capace anche oggi di rimanere attuale. Perché? «Il jeans ha conquistato una diffusione mondiale grazie a una qualità unica: è bello in ogni situazione – ci spiega Tacchella –.
È bello da nuovo, da vecchio, scolorito, bucato, strappato, sporco, largo o stretto. È l’unico indumento che diventa il linguaggio di chi lo indossa. Nonostante ciò, il jeans si è evoluto poco nel tempo: basti pensare che il modello 501 di Levi’s è leader di mercato da 150 anni. La società è cambiata profondamente, ma il jeans è rimasto costante».
Ma per capire cosa interpreta da sempre e in cosa è cambiato al tempo stesso basta osservare la gente in strada. «La maggior parte delle persone indossa jeans e questo per la loro versatilità – ci sintetizza il Ceo –. Anche se i jeans di oggi sembrano simili a quelli del passato, in realtà sono molto più comodi, grazie all’introduzione del filo elastico che li rende facili da indossare e ancora più diffusi.
Questo apprezzamento lo riscontriamo in tutto il mondo». In un’epoca di inclusione, sensibilità e attenzione all’ambiente, ci si accorge poi che questo capo è spesso stato da sempre unisex, controcorrente, antesignano di una risposta pronta alla sostenibilità dell’epoca moderna.
E ci dà ragione anche l’erede a capo della Carrera di oggi in proposito. «È un capo unisex, per tradizione e per realtà. Considerando il jeans non solo come un prodotto, ma come un linguaggio (primo strumento di comunicazione non verbale), il nostro obiettivo aziendale è soddisfare le esigenze di stile (linguaggio) di consumatori diversi».
Ed è un passaggio-chiave quello del jeans come “nuovo linguaggio” di questi tempi. «Il nostro compito è offrire il linguaggio giusto a ciascun consumatore. Indipendentemente dal modello, la nostra missione rimane creare capi belli, duraturi, accessibili e sostenibili. Siamo l’unico brand italiano che ha una filiera produttiva totalmente integrata, in Tajikistan, dalla materia prima al prodotto finito. Le nostre fabbriche sono in mezzo alle piantagioni di cotone.
Grazie al controllo totale della filiera produttiva riusciamo a garantire prodotti di alta qualità fatti in modo rispettoso. Infatti, i nostri pantaloni fatti in Tajikistan sono tracciati con un QR code, con tecnologia blockchain. Per Carrera, la sostenibilità non è solo uno slogan ma una necessità, per fare jeans fatti bene, sempre e dove a essere rispettato deve essere anche il consumatore finale, con un prezzo giusto».
Un’icona nata nel passato trova nel presente una sua perfetta nuova versione, anche per scelte corporate che proprio per il 2025 promettono azioni sul piano socioculturale, facendo del prodotto ancora una volta un simbolo di tendenza. «Il progetto corporate più importante di Carrera – racconta in proposito Tacchella – è quello di “nutrire e alimentare” una filiera del rispetto.
Ciò significa che tutti gli attori coinvolti nel nostro ecosistema, dal contadino che coltiva il cotone, alla sarta che realizza i jeans, ai dipendenti, fornitori, clienti, istituzioni e consumatori finali, devono lavorare bene.
Questo si traduce in prezzi giusti, salari equi, rispetto di chi lavora, tempi di pagamento corretti, rispetto dell’ambiente dove si lavora, assolvimento degli obblighi istituzionali. Nella filiera del rispetto, non c’è il brand che viaggia su una super-car mentre gli altri si arrangiano con utilitarie. Tutti devono essere in grado di guidare una macchina media». Concettualmente, una modalità silenziosa ma concreta, una risposta al fast-fashion globale che rigurgita sprechi e perde in qualità manifatturiera.