La chimica che imita la natura

Un team internazionale ha sviluppato capsule artificiali con proprietà simili a quelle naturali. Queste strutture innovative, frutto di cinque anni di ricerca, promettono applicazioni rivoluzionarie nella depurazione ambientale e nell’industria. Intervista a Luka Ðorđević
Riprodurre in laboratorio strutture naturali complesse è una delle sfide più affascinanti della chimica. Un team internazionale di ricercatori ha sviluppato capsule artificiali capaci di catturare e rilasciare sostanze inquinanti in modo controllato, aprendo nuove prospettive per la purificazione di acqua e aria (e non solo).

La ricerca, pubblicata su «Nature» con il titolo Dynamic Supramolecular Snub Cubes, è frutto della collaborazione tra le Università di Padova e Hong Kong, insieme a istituzioni statunitensi (Duke, Northwestern, South Florida, California Institute of Technology) e cinesi (Tianjin, Anhui, Zhejiang). Lo studio è stato coordinato da Sir James Fraser Stoddart, premio Nobel per la chimica nel 2016, scomparso il 30 dicembre 2024. Le capsule biologiche esistono in natura da milioni di anni: si tratta di poliedri supramolecolari composti da subunità proteiche che si autoassemblano, formando strutture altamente simmetriche e funzionali.
Da tempo la scienza cerca di riprodurre questi meccanismi in laboratorio e, dopo anni di sperimentazioni, i ricercatori sono riusciti a ottenere capsule artificiali con proprietà simili a quelle naturali. Queste nuove strutture, oltre a immagazzinare selettivamente alcune sostanze, possono essere stimolate per rilasciarle in modo dinamico e controllato, aprendo scenari innovativi in ambito ambientale e industriale. Abbiamo avuto il piacere di intervistare il professor Luka Ðorđević, autore della ricerca e professore del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova, per approfondire il valore di questa scoperta e le possibili applicazioni future.
Qual è l’aspetto più rivoluzionario della vostra ricerca?
«L’elemento più innovativo è stato proprio riuscire a creare capsule artificiali. Una volta raggiunto questo obiettivo, si sono aperte altre possibilità: abbiamo potuto studiare come queste strutture assorbono alcuni contaminanti e analizzare le loro proprietà dinamiche. Questo ci ha permesso di progettare un sistema in grado di immagazzinare selettivamente sostanze e rilasciarle sotto stimoli specifici».
Le capsule biologiche esistono in natura da milioni di anni. Qual è stata la maggiore sfida nel replicarle in laboratorio?
«La natura è molto brava a creare sistemi complessi. Riprodurre la stessa complessità in laboratorio non è semplice. In natura, esistono molte forme di capsule proteiche, anche in esseri non viventi: basti pensare ai virus, che contengono il loro materiale genetico all’interno di involucri proteici. Pensiamo per esempio alla ferritina, una proteina fondamentale per gli esseri umani che immagazzina e trasporta ferro proteggendo il nostro organismo da un eccesso di questo elemento e rilasciandolo quando necessario.
Queste strutture si formano grazie all’autoassemblaggio di subunità proteiche. La sfida principale è stata costruire una molecola che si autoassemblasse come le strutture naturali. Per riuscirci, dovevamo trovare un equilibrio tra semplicità e complessità: se la molecola fosse stata troppo semplice, non sarebbe stata in grado di riconoscere le altre per formare la capsula; se troppo complessa, non saremmo riusciti a sintetizzarla in laboratorio. È stato un lungo processo: abbiamo impiegato cinque anni, sperimentando diverse molecole autoassemblanti prima di trovare la combinazione giusta nell’estate del 2022».
Parliamo di dimensioni: perché è così difficile creare poliedri nanoscopici e quali vantaggi offre la miniaturizzazione rispetto ad altre soluzioni per la purificazione dell’acqua e dell’aria?
«La scala nanometrica delle capsule è fondamentale: permettono di incapsulare inquinanti molto piccoli, come il benzene, che ha dimensioni inferiori a un nanometro. Se i pori fossero più grandi, queste sostanze non potrebbero essere trattenute in modo selettivo. Altri esempi che abbiamo preso in considerazione sono il cicloesano e altri contaminanti artificiali. Questo aspetto è cruciale per applicazioni di purificazione ambientale».
Quali sono le possibili applicazioni industriali della vostra scoperta? C’è già qualche settore interessato a portare questa tecnologia dal laboratorio al mercato?
«Le potenzialità sono molte. Possiamo immaginare filtri basati su queste capsule per depurare aria e acqua da contaminanti specifici. Ma la vera innovazione è che le nostre capsule hanno proprietà dinamiche: sotto irradiazione luminosa, possono aprirsi e rilasciare il contenuto in modo controllato. Questo significa che possiamo regolare l’assorbimento e il rilascio delle sostanze inquinanti in base a uno stimolo esterno, un aspetto chiave per un utilizzo pratico ed efficiente. Le capsule modificano la propria struttura per rilasciare il contaminante una volta immagazzinato, tornando alle loro condizioni iniziali, cosa che le rende riutilizzabili.
Questo le rende interessanti per il settore industriale: da quando il nostro lavoro è stato pubblicato, diverse grandi aziende, come ENI, si sono mostrate interessate a esplorare applicazioni nel settore della decontaminazione degli idrocarburi aromatici. Ora che sappiamo come realizzare queste capsule, il passo successivo è svilupparne altre con strutture poliedriche diverse dallo snub cube, in grado di catturare diversi contaminanti o anche più contaminanti contemporaneamente.
Inoltre, dobbiamo studiare come produrle su scala più ampia, passando dai milligrammi attuali a quantità in grammi o chilogrammi, per applicazioni industriali su larga scala.
Oltre alla bonifica ambientale, un’altra applicazione su cui il mio gruppo di ricerca dell’Università di Padova si sta concentrando riguarda la produzione e purificazione di materie prime, in particolare l’etilene, essenziale per la produzione di polietilene (e quindi della plastica). Stiamo collaborando su questo fronte con diversi gruppi internazionali, soprattutto con la Northwestern University di Chicago.
Attualmente, la purificazione dell’etilene richiede alte temperature e l’uso di metalli nobili, ma l’impiego di capsule e materiali porosi trattati con fotocatalisi potrebbe rendere il processo più sostenibile, sfruttando la luce solare anziché il calore. Un ulteriore ambito di ricerca, sebbene non ancora esplorato direttamente dal mio team, è quello biomedico. Le capsule potrebbero essere progettate per riconoscere e immagazzinare farmaci o altre molecole di interesse biologico, consentendone un rilascio controllato e aprendo prospettive nel drug delivery».
Collaborare con un team internazionale, sotto la guida di un premio Nobel come Fraser Stoddart, deve essere stata un’esperienza unica. Qual è la lezione più importante che ha imparato da questo percorso?
«Da questo progetto ho tratto diversi insegnamenti. Prima di tutto, senza collaborazione internazionale non saremmo mai arrivati a questo risultato: ogni gruppo di ricerca ha messo a disposizione la propria expertise per affrontare un problema complesso, e piccoli laboratori isolati non avrebbero potuto fare lo stesso. Il secondo viene proprio dal professor Stoddart, che ho sempre ammirato per il suo approccio di supporto giovani.
Ci incoraggiava a esplorare, ma ci ricordava sempre che la ricerca non deve essere fine a sé stessa: bisogna partire da un problema concreto e cercare di approcciarlo sotto diversi punti di vista. Quindi i messaggi sono due: collaborando siamo più forti, e occorre sempre esplorare, farsi domande, pensare in modo interdisciplinare».
Quale consiglio darebbe oggi a un giovane studente di chimica?
«Di trovare un problema che lo appassioni e lavorare su quello. La chimica è un campo vastissimo, dall’organica all’inorganica, e ognuno può trovare la propria strada. Bisogna esplorare, farsi domande e trovare un modo unico di approcciare i problemi per dare il proprio contributo. Inoltre, nella mia esperienza sono state preziose le esperienze all’estero, da Boston a Trieste, da Cardiff a Chicago. Vivere la ricerca in contesti diversi aiuta ad aprire la mente e a capire che la scienza è un’impresa collettiva. Curiosità e collaborazione sono fondamentali per affrontare le grandi sfide della chimica moderna».